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Come misurare la crescita ed il valore? Le misure tradizionali sono oggetto di critica e di revisione.
Si prenda ad esempio il Pil. Che il Prodotto Interno Lordo non possa più essere considerato la sola misura del progresso, è cosa ormai nota. Il suo limite è quello di non tenere conto di alcune questioni di importanza vitale per la qualità della nostra vita, quali un ambiente sano, la coesione sociale o la misura della felicità individuale. Non può essere considerato la sola misura del progresso e non è più sufficiente per attuare politiche moderne.
Da qui l’esigenza di trovare nuovi indicatori economici per misurare la crescita come benessere e qualità della vita, che vadano ad affiancare, ma non a sostituire, il PIL.
Negli anni vi sono state varie iniziative per misurare il progresso e il benessere della comunità: come l’indice di Felicità Interna Lorda, proposto dal re del Bhutan negli anni ’70; l’Indice di Sviluppo Umano (basato su reddito pro capite, salute, educazione), presentato dall’UNDP all’inizio degli anni Novanta; l’impronta ecologica, per indicare la porzione di territorio necessaria per produrre le risorse consumate e per assorbire i rifiuti generati da un individuo, una famiglia, una città, una regione, un paese o dall'intera umanità. Nel 2006 l’Ocse ha lanciato il “Global Project on Measuring the Progress of Societies”; lo scorso agosto la Commissione Europea ha emanato una Comunicazione al Consiglio e al Parlamento dal titolo “Non solo PIL. Misurare il progresso in un mondo in cambiamento”. Nel 2008 Sarkozy ha dato mandato ad una prestigiosissima Commissione, composta da Joseph Stiglitz, Amartya Sen, e Jean-Paul Fitoussi – del quale riportiamo un’intervista -, di redigere un rapporto proprio sulla misurazione delle prestazioni economiche e del progresso sociale. Questo rapporto, presentato il 14 settembre scorso, ha prodotto una serie di raccomandazioni per la determinazione del “benessere pluridimensionale”. Da esso si rileva che ad essere importanti non sono solo le condizioni di vita materiali, la sicurezza economica e fisica, la salute, ma anche le attività personali, l’istruzione, i rapporti sociali, l’ambiente.
In quest’ottica, un ruolo rilevante per la contribuzione al benessere economico e sociale è assunto anche dal mondo imprenditoriale, soprattutto da quelle imprese - come le Banche di Credito Cooperativo - per le quali le responsabilità sociale e ed ambientale sono elementi integrati nello statuto.
Se le BCC-CR, come è scritto nell’articolo 2 dello statuto, non perseguono soltanto finalità economiche, ma più generali fini di miglioramento delle condizioni morali, culturali ed economiche dei soci e del territorio e di promozione della coesione sociale e dello sviluppo sostenibile, allora trovare strumenti nuovi e diversi da quelli standard di misurazione di questo complessivo valore creato è, evidentemente, una necessità. Occorre una “metrica” nuova e dedicata.
Uno strumento molto diffuso per rendicontare e misurare l’impegno socio-ambientale delle BCC-CR è il BSM, il Bilancio Sociale e di Missione del Credito Cooperativo, che raccoglie, oltre ai principali dati economico-finanziari, informazioni circa l’impegno nel migliorare la vita pubblica nel territorio in cui le BCC-CR sono inserite. Attraverso il Bilancio Sociale si individuano e quantificano sia gli sforzi che i benefici legati all’attività del mutualismo verso i soci e verso la comunità.
In esso, sono già evidenziati alcuni indicatori originali, propri delle BCC-CR, come il “valore al socio-cliente” ed il “cost income ratio rettificato”, che tengono conto delle peculiarità delle finalità d’impresa delle cooperative bancarie mutualistiche e che, pertanto, valorizzano i maggiori costi che sostiene la BCC-CR o i ricavi cui essa rinuncia per il perseguimento della missione aziendale scritta nell’art. 2 dello Statuto. Una contabilità più accurata del valore economico, sociale e culturale generato dall’attività delle BCC-CR a beneficio dei soci e della comunità locale consentirà di identificare le migliori pratiche idonee a raggiungere una sempre maggiore capacità di coniugare efficienza e creazione di valore economico con la creazione di valore sociale ed ambientale.
Il Pil del futuro
Coordinatore dei lavori della Commissione francese sulla misurazione delle performance economiche e del progresso sociale (Commissione Stiligtz-Sen-Fitoussi), Jean-Paul Fitoussi è professore all’Institut d’études politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. E’ inoltre presidente dell’Ofce (l’Osservatorio francese delle congiunture economiche). Con lui abbiamo parlato dei risultati del lavoro della Commissione, delle ragioni che ne sono alla base, delle implicazioni profonde dello stesso.
di Marco Dari Mattiacci
Professor Fitoussi, negli anni si sono già avute varie iniziative per superare il Pil. Sembra però che finora nessuna di esse abbia avuto la giusta attenzione a livello accademico e politico. Pensa che i tempi siano finalmente maturi per cambiare gli occhiali attraverso cui guardare il mondo?
Credo di sì. E non a caso, ma per una ragione semplice, perché la gente non si riconosce più nelle statistiche pubbliche e dunque il problema non è mettere a punto un indice della felicità, della qualità di vita o di qualsiasi cosa. Il problema è che ci sono molti difetti nel sistema che usiamo attualmente. Prima di tutto c’è un difetto di democrazia. Quando la gente non si risconosce nelle statistiche pubbliche ha l’impressione che queste statistiche siano false o manipolate. Ciò genera una frattura tra il popolo e le élite. Dunque la questione è sapere perché c’è questa distanza tra la percezione collettiva e le misurazioni statistiche. Sapendo che dietro non c’è una manipolazione, ma ci sono ragioni legate ai criteri di calcolo adottati, noi membri della Commissione abbiamo provato a spiegarle. Di particolare rilevanza è il fatto che nel corso degli ultimi 25 anni la disuguaglianza è cresciuta e quando la disuguaglianza cresce non ci si riconosce più nei valori medi. Le medie diventano meno rappresentative e il problema sta nel fatto che le statistiche pubbliche riportano valori medi.
Quando si parla di inflazione ci si riferisce all’inflazione media, analogamente per il tasso di crescita. […] Se, per esempio, le statistiche pubbliche dicono che il tasso d’inflazione è stato del 2%, può darsi che ciò nella percezione comune non sembri vero. E ciò dipende dal fatto che quando la disuguaglianza cresce c’è una diversità nel paniere di consumi delle persone [di ceti sociali diversi] e si sa bene che negli ultimi anni certi beni hanno visto il loro prezzo crescere ed è venuto a diminuire il potere d’acquisto di coloro che guadagnavano poco. C’è stato infatti un incremento dei prezzi dei beni alimentari, del prezzo del petrolio e del prezzo delle case. Tutte spese che rappresentano una porzione molto importante del reddito delle persone meno ricche, ma una frazione minore del reddito delle persone più benestanti. E se si calcolano un po’ più seriamente i diversi tassi di inflazione si vede bene che il tasso di inflazione per il 50% della popolazione meno ricca è stato di oltre il 50% e che il tasso di inflazione della popolazione più ricca è stato del -2%, perché la popolazione più ricca utilizza molti prodotti che beneficiano del progresso tecnico, che fa diminuire il prezzo.
Per questo noi sosteniamo che non bisogna basarsi solamente sulle statistiche medie, ma anche sulle mediane. […] E che bisogna andare ancora più in profondità e per esempio dare l’evoluzione del reddito per decili della popolazione.
Nel rapporto si legge: Ciò che misuriamo determina gli obiettivi che collettivamente ci sforziamo di raggiungere e gli obiettivi che ci sforziamo di raggiungere determinano ciò che misuriamo…
Il nostro punto di vista è che ogni governo debba avere le statistiche che permettano di condurre le politiche giuste. Ci sono delle politiche che possono far crescere il PIL, ma decrescere il benessere. Per esempio, una politica che risolva il problema delle pensioni e che faccia in modo che le pensioni diventino più precarie, più difficili da calcolare, perché soggette a fluttuazioni; cioè, una politica che disponga il passaggio da un sistema a benefici fissi ad un sistema a contribuzione fissa […]farà crescere l’insicurezza economica, quindi farà descrescere il benessere anche se probabilmente farà crescere il PIL. Dunque abbiamo due misure: una misura del PIL che cresce e una misura del benessere che decresce perché l’insicurezza economica aumenta. Ora, se un governo sa queste due cose può darsi che cambierà strada nel fare la riforma.
Potrebbe riassumerci in due parole quali sono i principali risultati scientifici del rapporto?
Noi pensiamo che ci sia bisogno di una serie di indicatori. Non siamo alla ricerca di un indicatore unico perché crediamo che non esista un indicatore unico in grado di riassumere lo stato della popolazione. Per esempio l’Indice di Sviluppo Umano dà delle indicazioni importanti, ma non consente di fare politiche economiche sulla base di esse. Offre una visione parziale delle cose. In sostanza, noi pensiamo che ci sia bisogno del sistema com’è oggi, ma modificato secondo le nostre raccomandazioni. Perché sappiamo bene che è meglio dare alla gente delle statistiche sul reddito piuttosto che delle statistiche sul PIL. E sappiamo anche che sia le statistiche sul PIL sia quelle sul reddito presentano dei difetti di calcolo. Per esempio, sappiamo che quando il traffico nelle città aumenta, e dunque quando aumenta il tempo perso in macchina per andare dalla casa all’ufficio, il PIL aumenta perché si consuma più benzina e si usano di più le macchine, ma la gente perde più tempo e quindi il benessere diminuisce.
Potrei fare altri esempi. Eccone uno: quando la violenza cresce nella società c’è bisogno di più poliziotti, guardie private, difese contro i furti negli appartamenti. Anche in questo caso il PIL aumenta [mentre il benessere diminuisce]. Tuttavia si tratta di costi non di produzione e [in quanto tali] non dovrebbero essere contati come positivi, bensì con segno meno.
Quali sono quindi gli step da compiere?
Dunque prima dobbiamo mettere a posto il sistema di contabilità nazionale e portare in primo piano tutte le statistiche centrate sulle persone. La produzione lorda non è centrata sulle persone, il reddito netto invece sì. Il reddito netto è il reddito [calcolato] tenendo conto della disuguaglianza, dunque considerando il reddito mediano e il reddito medio.
Secondo, bisogna avere un’idea della qualità della vita e per dare delle misure giuste sulla qualità della vita bisogna sapere da cosa dipende la qualità della vita. E la qualità della vita dipende da fattori oggettivi, per esempio la salute, l’educazione, la sicurezza fisica ed economica, le reti sociali. Abbiamo tutta una lista di fattori che sono determinanti obiettivi della qualità di vita e abbiamo anche delle valutazioni soggettive e con questi fattori e queste valutazioni possiamo mettere a punto un indicatore della qualità della vita.
Terzo, se vogliamo avere una visione globale e precisa della situazione bisogna anche avere una visione del futuro e dunque della sostenibilità della situazione attuale. […] Una situazione è sostenibile se il capitale totale della nazione [nel tempo] non decresce. Se almeno esso resta stabile o aumenta. E quando parliamo di capitale totale non parliamo solamente del capitale economico, ma parliamo anche del capitale umano e naturale, dell’ambiente. Dunque, se facciamo un grande indicatore del capitale - e questo si può fare - e misuriamo il livello di questo capitale… se vediamo che questo capitale aumenta allora possiamo dire che lasciamo alla generazione seguente un capitale maggiore di quello che abbiamo avuto in eredità. In questo caso la situazione è sostenibile. Se il capitale invece diminuisce, allora vuol dire che la situazione non è sostenibile.
Per esempio la crisi che abbiamo avuto è una crisi dovuta ad una diminuzione del capitale. Prima della crisi credevamo che il capitale fosse alto e invece la crisi ha rivelato che i prezzi dei mercati erano gonfiati. L’indebitamento che la gente ha contratto sull’ipotesi che il capitale valeva quanto stabilito dai mercati era troppo elevato perché di fatto il mercato si sbagliava sul prezzo degli asset.
Le singole nazioni devono dunque dotarsi di indicatori statistici. Pensa che riusciremo ad arrivare ad un’armonizzazione, ad alcuni indicatori comuni, come è per esempio il PIL attualmente?
Sì, credo proprio di sì, e lo credo perché il rapporto ha ricevuto riscontri molto favorevoli. Il segretario generale dell’OCSE ha detto che va messo in pratica e dunque si inizia ora a seguire le raccomandazioni del rapporto. Il rapporto è stato anche presentato al G20 e al Consiglio d’Europa ed ha ricevuto un’accoglienza positiva. I singoli paesi hanno dato disposizione ai loro istituti di statistica nazionali di provare ad applicare le raccomandazioni del rapporto. Dunque sono piuttosto ottimista senza essere un visionario.
Sembra che ormai attorno al superamento del PIL si sia sviluppato un dibattito maturo. Pensa che possa costituire una via per cambiare in una certa misura l’anima del capitalismo?
Spero di sì. Credo di sì. Perché se cominciamo a contare tutto quello che viene distrutto e non solamente ciò che viene prodotto allora forse faremo delle scelte diverse e allora forse il capitalismo cambierà. Al momento, infatti, non contiamo tutto ciò che viene distrutto. Quando si fa l’esportazione delle mine, per esempio, o quando si fanno i pozzi di petrolio, contiamo in positivo la vendita di queste risorse, ma non contiamo in negativo il fatto che abbiamo distrutto delle risorse. E se facciamo un calcolo più giusto, forse si arriverà alla conclusione che certe attività dovrebbero essere disincentivate e che altre attività dovrebbero essere promosse. Dunque credo che sia possibile che cambi la visione che abbiamo del mondo e la natura del capitalismo. Ma queste sono speranze.